Falcone 25 anni dopo: l’antimafia che diventa finzione

Illustri personaggi dei movimenti per la legalità sono finiti nelle maglie delle inchieste giudiziarie

strage di Capaci

A Palermo e in tutta la Sicilia si respira un’aria diversa rispetto a 25 anni fa. In questo quarto di secolo trascorso dalla morte di Giovanni Falcone e della sua scorta è cambiato tanto. Prima c’erano le lenzuola bianche, l’indignazione montante, una nuova e linda coscienza antimafia, un nuovo modo di parlare da parte della politica, un modo intenso e sentito di celebrare il ricordo.

Adesso le lenzuola bianche non ci sono più, l’indignazione spesso è soltanto un hashtag buono per acchiappare like sui social, la coscienza antimafia non è più tanto linda, la politica ha costruito carriere parlando di legalità e il ricordo è diventato un trito rituale a cui i giovanissimi si sottraggono.

L’antimafia si è istituzionalizzata e ha perso la reale forza propulsiva e spontaneista degli inizi. Troppi scandali e troppe ombre hanno inquinato la bellezza di una ribellione sincera e di tante persone perbene che si sono spese e si spendono tutt’ora per cercare e predicare la legalità.

Leonardo Sciascia con il suo celebre articolo “I professionisti dell’antimafia” aveva previsto tutto soltanto che aveva inquadrato il bersaglio sbagliato: Paolo Borsellino. Per il resto la sua analisi ha centrato pienamente nel segno.

Come non menzionare Silvana Saguto ex potente presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo accusata di aver creato un vero e propria “sistema” della gestione dei beni confiscati.

Proprio la Saguto, un 23 maggio di qualche anno fa, teneva seminari sulla “gestione delle aziende sequestrate”.

Come non menzionare Roberto Helg, ex presidente della Camera di Commercio di Palermo, tutto antimafia, convegni e legalità. E’ stato condannato a quattro anni e otto mesi di carcere per aver chiesto tangenti a un imprenditore. E’ stato arrestato proprio come i picciotti di mafia mentre intascava una tangente da centomila euro da Santi Palazzolo, un pasticciere a cui aveva assicurato il rinnovo del contratto d’affitto per il suo locale aperto all’interno dello scalo intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

“Racket e usura potranno essere sconfitti solo se le vittime denunceranno e collaboreranno con le istituzioni”, parlava così nel 2015 in occasione della consegna del Premio Libero Grassi, intitolato all’imprenditore palermitano ucciso dalla mafia per essersi ribellato al pagamento del pizzo.

Come non menzionare Pino Maniaci (icona del giornalismo di strada e di denuncia finito in una brutta storia di estorsioni a danno di due amministratori comunali con piccole “spacconate” e vanterie con una donna) e del suo potere derivato proprio dall’antimafia.

Come non menzionare quello che è tornato ad essere nuovamente protagonista della politica siciliana dopo una condanna per mafia e alcuni anni di carcere: Totò Cuffaro.

Nel 2005 l’allora presidente della Regione tappezzò l’isola con i 6 per 3 con su scritto uno slogan chiaro: “La mafia fa schifo”.

“Stiamo conducendo una vera lotta alla mafia – diceva Cuffaro spiegando il senso dell’iniziativa – facendo crescere lo sviluppo e il lavoro governando. Tutto questo per uscire da questa dannata e schifosissima cultura mafiosa”.

Gli esempi in questi 25 anni sono molteplici. Ci sono uomini politici – come l’attuale presidente Crocetta – che hanno fatto carriera con l’antimafia, ci sono industriali che hanno fatto dell’antimafia un vessillo – come Antonello Montante – per poi finire nei guai e ci sono giornalisti che attaccati alla sacralità del verbo antimafioso risultano inattaccabili senza però aver dato mai neppure uno straccio di notizia.

In un quarto di secolo tanto è cambiato, quello che resta è l’esempio fulgido e adamantino del giudice Giovanni Falcone.