Autonomia differenziata: un altro colpo di màglio al Sud e all’unità del Paese

È vero: il Consiglio dei Ministri dello scorso 21 dicembre non ha approvato nessun documento ufficiale sulla cosiddetta Autonomia regionale differenziata; ha varato solo il cronoprogramma, vale a dire i tempi per giungere a rimodulare gli equilibri istituzionali del Bel Paese. Cronoprogramma che prevede: a metà febbraio la definizione dei tempi per la firma dell’intesa; in primavera o al massimo in estate la presentazione del disegno di legge e in autunno il voto, a maggioranza qualificata di Camera e Senato.

Tempi stringenti, che hanno entusiasmato i sostenitori di questo disegno, in particolare il governatore del Veneto Luca Zaia, che all’indomani del Consiglio dei Ministri dichiarò: “Mai regalo di Natale più bello i veneti avrebbero potuto trovare sotto l’albero. Sarà il Natale più bello della mia vita”. Ma su cosa stanno trattando Governo centrale e Regioni? E perché esultano i sostenitori dell’Autonomia regionale differenziata che dir si voglia?

Governo e Regioni stanno trattando su tre materie di competenza esclusiva dello Stato che sono giustizia di pace, istruzione e tutela dell’ambiente e dei beni culturali e su altre venti tra quelle concorrenti, tra le quali il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, la formazione professionale, il sostegno alla innovazione per i settori produttivi e le grandi rete di trasporto.

Le Regioni che sostengono l’istanza di trasferire a loro la competenza di queste materie (il Veneto, che ha fatto da apripista, Lombardia e Emilia Romagna a cui si stanno aggiungendo il Piemonte, la Liguria, la Toscana e l’Umbria-Marche), esultano perché questo disegno porterà loro non soltanto i poteri, ma anche il gettito fiscale necessario per gestirli raccolto sul proprio territorio e che oggi viene trasferito alle casse dello Stato. Un gettito fiscale che verrebbe sottratto alla fiscalità generale e al finanziamento dei servizi dei cittadini delle altre Regioni italiane.

L’obiettivo di queste Regioni, in una prima fase, è quello di incamerare tutti i soldi che spende lo Stato per quelle funzioni che verranno loro trasferite, e successivamente passare a un sistema di fabbisogni standard, in cui si misura non la spesa storica, ma la necessità di un territorio più un bonus per le aree ricche. Insomma l’obiettivo è quello di avere più soldi, a scapito delle Regioni che ne hanno più bisogno. La richiesta delle Regioni anzidette di avere dallo Stato più denari scaturisce da un concetto di residuo fiscale sbagliato, perché viene calcolato su base territoriale piuttosto che su base individuale, violando così i principi etici su cui è fondato e l’articolo tre della Costituzione che recita:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che , limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, è l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori nell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

È vero, l’autonomia differenziata è una possibilità prevista dalla sciagurata riforma costituzionale del titolo V del 2001, ma è prevista in una logica che non viola i diritti fondamentali di uguaglianza sostanziale. La richiesta delle Regioni anzidette di avere assegnate ulteriori competenze per istruzioni e sanità determina, invece, una differenziazione nel livello dei diritti, a meno che lo Stato non definisca in modo preciso i livelli essenziali delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini presenti sull’intero territorio.

Su questa vera e propria secessione dei ricchi a danno delle Regioni più svantaggiate marcia come un treno la Lega di Salvini, balbettano, invece, una debole resistenza i Cinque Stelle, mentre è muto come un pesce il sindacato, idem le Associazioni imprenditoriali, in testa Confindustria che non profferiscono parola. Per quando riguarda il Partito Democratico – sinora silente e con qualche suo esponente orientato ad assecondare il desiderio delle Regioni forti di tenersi tutti i soldi delle proprie tasse – c’è da augurarsi che il nuovo corso che sembra profilarsi al vertice si schieri con coraggio per cambiare rotta.

In Sicilia sull’Autonomia differenziata i soli che hanno manifestato preoccupazione sono stati l’ex Rettore dell’università di Messina onorevole Pietro Navarra, del PD, con un suo contributo di merito pubblicato qualche settimana fa sul “Mattino “ di Napoli e il presidente della Regione Siciliana, onorevole Nello Musumeci che – l’altro ieri in un’intervista a La Repubblica – ha anche avanzato la proposta al governo nazionale di insediare un tavolo con i governatori del Mezzogiorno “per avviare una vera perequazione in tema di infrastrutture, sanità, istruzione, fisco”.

Proposta condivisibile perché se è vero che l’iniziativa delle Regioni ordinarie che invocano maggiori poteri e risorse non mette in discussione le condizioni di particolare autonomia di cui godono le regioni a Statuto speciale – sanciti nei primi commi del rinnovato articolo 116 della Costituzione – è anche vero che se alle Regioni che chiedono maggiore autonomia si dà pure la possibilità di trattenere i soldi che incassano con le tasse il risultato sarà quello di sottrarre risorse anche alla Sicilia su sanità, istruzione, infrastrutture, ecc.

Con la conseguenza di accentuare il divario economico con le regioni del Nord; di aumentare la disoccupazione; di far crescere ulteriormente i livelli di povertà; di ridurre gli investimenti nel campo delle grandi infrastrutture di cui l’isola ha assoluta necessità. Quindi, c’è da augurarsi che i Cinque Stelle (che nel Sud e in Sicilia hanno ottenuto un grande successo), il PD che nel passato ha issato con forza il vessillo del meridionalismo, i sindacati e le associazioni imprenditoriali battano un colpo, ora e subito.