Niccolò Notarbartolo, presidente della commissione Lavori Pubblici ed esponente del Partito Democratico, è uno dei 34 consiglieri per i quali è stata oggi richiesta l’imputazione coatta per via di alcune incongruenze sui verbali delle commissioni consiliari del 2014. Secondo il Gip che ha disposto l’imputazione – la procura aveva chiesto l’archiviazione del caso -, i consiglieri avrebbero attuato una vera e propria “gettonopoli” finalizzata al raggiungimento del gettone di presenza, anche con casi di ubiquità, ovvero di presenza contemporanea in più commissioni. Per Notarbartolo, per il quale non sussisterebbero casi di ubiquità, arriverà quasi certamente il rinvio a giudizio, per le sue responsabilità quale presidente di commissione. Di seguito, la sua dichiarazione in merito alla vicenda.
“Oggi sono spinto a pensare che esista una grande organizzazione burocratica che tradisce il significato letterale del nome che le è stato attribuito. Perché non si può negare che il sistema giustizia, a volte, imbocchi strade non immediatamente comprensibili. Nel mio immaginario ho sempre ritenuto che in un processo esista una parte – l’accusa – che indaga e formula capi di imputazione, un’altra parte – quella lesa – che lamenta di aver subito un torto, ed infine una parte – quella che dovrebbe rappresentare il giusto – che decide se la parte lesa sia effettivamente tale e se l’accusa sia realmente fondata. In casi come questo, – ma non me ne sorprendo perché è così da che mondo è mondo – c’è anche un’altra parte rappresentata da soggetti che si limitano a fare l’unica cosa che la propria natura gli consente. In fin dei conti, da avvoltoi e sciacalli, che altro ci si potrebbe aspettare.
Bè, io sono finito coinvolto in un processo in cui la parte lesa non lamenta lesioni, l’accusa che ha indagato non mi accusa, ma contro di me, contro l’accusa e a tutela di una parte che lesa non si sente, c’è un giudice che decide di assumere tutte le parti in causa e lotta contro tutti per l’affermazione di un “giusto” abbastanza ipotetico. Un sussulto teso a una moralizzazione che non mi sento di contestare o condannare del tutto. Ma che – ma so che è una mia personalissima opinione -, col diritto ha davvero poco a che fare.
E così vengo chiamato in causa, non per avere posto in essere azioni volte a perseguire un mio vantaggio personale, ma per aver presieduto commissioni in cui il segretario verbalizzante potrebbe avere sbagliato a scrivere l’orario di ingresso di un consigliere per ben 5 minuti. Errore che, peraltro, sono sicuro lui non abbia commesso.
E questo presunto errore, badate bene, ha addirittura reso possibile che tre miei colleghi rosicchiassero 5 minuti necessari a rubare 70 euro ciascuno. Quindi io sarei un delinquente così incallito che, pur di permettere a tre miei colleghi di rubare in un anno 70 euro, in combutta con loro, avrei messo in discussione la mia vita e i miei valori. Poco importa che in verità quei settanta euro nessuno li abbia rubati, che quei 5 minuti non avessero nessuna valenza per l’ottenimento del famigerato e ambitissimo gettone. E che questa cosa sia nota a tutte le parti in causa. Importa ancor meno che dovrò spendere qualche migliaio di euro – spero davvero meno – per avvocati che dovranno difendermi da un’accusa che ho difficoltà a comprendere. Dovrò rassegnarmi: alla fine tutti noi dobbiamo recitare la parte che ci è stata assegnata. Non me l’aveva mica prescritto il medico di fare il politico!
Sono sereno solo perché sono sicuro di non aver fatto nulla di male. E spero che le cose vadano come devono andare. Perché tutto sommato sono un ottimista, ho superato molto di peggio nella vita e credo che, a dispetto di tutto e di tutti, la giustizia, magari non sempre, ma nella maggior parte dei casi, alla fine prevalga”.