Macbeth – Una magarìa, secondo Pirrotta al Teatro Verga

Macbeth - Una magarìa
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Evocativo e rivelatore già nel titolo, Macbeth – Una magarìa è l’adattamento dalla celeberrima tragedia di Shakespeare, scritto, diretto e interpretato da Vincenzo Pirrotta, che si è basato sulla traduzione di Carmelo Rapisarda. Si tratta di una coproduzione Teatro Biondo di Palermo e Teatro Stabile di Catania, che dopo il debutto palermitano sarà alla sala Verga dal 24 febbraio al 5 marzo. Un appuntamento da non perdere con l’originale rivisitazione compiuta dal possente attore, regista e drammaturgo siciliano.

Cinzia Maccagnano e Vincenzo Pirrotta
Cinzia Maccagnano e Vincenzo Pirrotta

Al fianco di Macbeth/Pirrotta sono in scena Cinzia Maccagnano (Lady Macbeth), Giovanni Calcagno, Marcello Montalto, Alessandro Romano, Giuseppe Sangiorgi, Dario Sulis, Luigi Tabita. Le scene sono dello stesso regista, realizzate con la collaborazione dello scenografo bozzettista Claudio La Fata; i costumi di Daniela Cernigliaro, realizzati con la collaborazione degli allievi della sede palermitana dell’Accademia del Lusso di Milano coordinati da Roberta Barraja e Laura Plaja; le musiche originali di Luca Mauceri, le luci di Gaetano La Mela.

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Si tratta di una rilettura aspra e terrigna del Macbeth shakespeariano, che Pirrotta immagina nel segno di una “magarìa”, una magia, un incantamento intriso di ritualità occulte e arcaiche leggende siciliane.

«La vicenda – spiega – è introdotta da una danza macabra, una vera e propria messa nera officiata dalle streghe, che presagisce influenze maligne e un vortice incantatorio nel quale precipiteranno i protagonisti. Ho studiato a lungo i rituali dell’occulto, soprattutto del Sud Italia, per questo il prologo, una specie di vero e proprio sabba, sarà in dialetto. La mia idea è che le streghe, con i loro oscuri presagi, restino attaccate ai personaggi come un cordone ombelicale, condizionandone le scelte e i comportamenti. Alcuni riusciranno a liberarsi recidendo questo cordone, ma non il protagonista e Lady Macbeth, i quali, come in preda a una possessione, compiranno i terribili delitti narrati da Shakespeare».

Pirrotta in Macbeth
Pirrotta in Macbeth

Prende così corpo un progetto a lungo maturato ed elaborato, come sottolinea Pirrotta: «Medito di affrontare quest’opera da circa dieci anni, ma le diverse ipotesi di scrittura e di messa in scena che ho immaginato nel tempo non mi hanno mai soddisfatto, arrivavo sempre ad un vicolo cieco. La svolta è avvenuta quando, durante un viaggio nel Ragusano, e precisamente a Chiaramonte Gulfi, mi sono imbattuto in un testo del primo Ottocento che descrive una messa nera, la cui finalità è il richiamo degli spiriti, gli spirdi dell’oltretomba. Da quel momento ho intrapreso un approfondito studio sull’occulto nella tradizione popolare siciliana e ho capito che quella doveva essere la chiave di lettura al mio Macbeth. Le streghe, la loro magarìa, sono le vere protagoniste, il motore della storia. Ho immaginato l’incontro con Macbeth e la profezia iniziale come una messa nera, un rituale occulto che le streghe celebrano per richiamare gli spiriti che devono “legare” Macbeth. Basandomi su quella suggestione, ho scritto in siciliano una sorta di percussione vocale che diventa sempre più ossessiva. Queste percussioni sono accompagnate da gesti ritmici che richiamano certe pratiche tribali africane, dove gli sciamani battono la terra per richiamare gli spiriti. Effettivamente ci sono due culture che si incontrano: quella siciliana e quella tribale africana».

Partendo dalla magarìa, tutto si sviluppa in una messa in scena «molto “primitiva”, totemica, barbarica, dove i valori basilari rispondono alle leggi del sangue, della guerra, della tribù, del sacrificio. Ho inserito anche alcuni canti popolari siciliani, come il girotondo che contrasta con la morte violenta di Duncan, mentre in altri momenti ho contaminato la tradizione con espressioni popolari contemporanee: ad esempio, nella scena abbastanza dirompente in cui le streghe praticano una forma di autoerotismo, faccio ritmare un anapesto greco in forma di rap».

Quello di Macbeth, per citare la trasposizione cinematografica di Kurosawa, è un “trono di sangue”. Il protagonista, per bramosia di potere, non esita a uccidere chiunque possa essergli di ostacolo. Si possono in qualche misura giustificare quei delitti compiuti sotto l’effetto di un perverso incantamento?

«No – è la netta risposta di Pirrotta -, perché Macbeth sceglie di sottomettersi alla magarìa, e la riprova è che Banquo decide di slegarsi e ci riesce. Il potere può certamente accecare e far perdere il senno, ma all’origine c’è una volontà, un dolo che innesca un processo, una escalation distruttiva e autodistruttiva; una volta innescato questo processo, irretiti dalla magarìa, soltanto la morte può essere liberatoria. Io non voglio dare chiavi di lettura contemporanee, sarebbe riduttivo e correrei il rischio di essere didascalico, ma certamente ognuno è libero di leggere in questa metafora la follia estremista che in questo momento sta accecando una parte del mondo, così come i rituali di appartenenza della criminalità organizzata. Diciamo che il male si adatta ai tempi e siamo ben lungi dall’averlo sconfitto. Sì, il mio Macbeth non è certo ottimista».

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