Dopo aver celebrato il Natale rinunciando al cenone, alle tombolate- per la gioia di grandi e piccini -, alla messa di mezzanotte, agli abbracci augurali e ai regali, ci accingiamo a lasciarci alle spalle, senza nessun rimpianto, l’anno che volge alla fine.
Un anno orribile, il 2020, scandito da restrizioni sanitarie, decreti e ordinanze emanate dal Governo e dai poteri locali per fronteggiare un’epidemia subdola e crudele che, oltre a seminare sofferenze e morte, ha reso il nostro futuro difficile e terribilmente incerto.
Una pandemia che ha avuto conseguenze nefaste anche sull’economia, soprattutto al Sud dove numerose attività economiche sono vicine al fallimento e tante altre sono state costrette, da marzo scorso, a non riaprire, in attesa di tempi migliori.
Preoccupano, non poco, il rischio dell’esplosione in primavera di una vera e propria bomba sociale che può essere provocata dalla scadenza delle casse integrazioni e, quasi contemporaneamente, dalla fine del blocco dei licenziamenti, nonché le fila che si registrano davanti alle mense allestite dalla Caritas e da altre associazioni di volontariato.
Ma nonostante tutti questi problemi penso che dobbiamo guardare con fiducia all’anno che verrà perché non mancano i motivi per non lasciarci vincere dalla depressione e dalla paura e per guardare con fiducia al futuro.
L’altro lato della medaglia
Tra le ragioni che ci spingono ad avere speranza nel domani penso innanzitutto all’arrivo del vaccino (della cui efficacia non c’è motivo di dubitare) e all’avvio della sua somministrazione che, in un tempo relativamente breve, ci potrà preservare dal virus; all’approvazione del Piano Sud 2030 prima ancora della crisi Covid, grazie all’impegno del ministro Provenzano; nonché alla montagna di soldi messe a disposizione del nostro Paese dall’Europa.
Denaro di cui l’Italia ha assoluto bisogno, anche in considerazione del fatto che la Legge di Bilancio appena approvata ha dovuto sacrificare gli investimenti e si è, invece, orientata sui necessari ristori, finalizzati a risarcire le imprese e i lavoratori, e su una serie di incentivi, proroghe e bonus vari, con i quali si è cercato di dare un po’ di sollievo alla gente ed impedire così un inevitabile tracollo economico.
Risorse, quelle del Recovery Fund, che vanno utilizzate per correggere gli squilibri di genere, sociali e territoriali che caratterizzano il Belpaese come si evince da tanti indicatori in grado di misurare le differenze socioeconomiche persistenti prima della pandemia, tra le diverse aree della penisola.
Tra questi ricordo in primo luogo la condizione economica delle famiglie, i dati Istat ci dicono che rispetto al totale delle famiglie residenti nel Mezzogiorno, quelle al di sotto della soglia di povertà erano più del 20 per cento, mentre nel Centro-Nord non superavano l’8 per cento. Secondo: il reddito per abitante nel Centro-Nord era pari a 22 mila euro, mentre quello del Sud era di poco superiore a 14 mila euro (il 35 per cento in meno).
Infine, lo stesso valore aggiunto delle aziende del Paese che ammontava prima della pandemia a circa 800 miliardi di euro era distribuito per il 20 per cento nel Sud e per l’ 80 per cento nel resto dell’Italia. Dunque occorre partire da questi dati di fatto per capire il da farsi.
Preoccupa da questo punto di vista, il fatto che i 52 progetti di cui si parla sembrerebbero dedicare il 50 per cento dei fondi alle infrastrutture, alla transizione energetica e per quando concerne il Sud sembra che si pensi solo all’ammodernamento ferroviario della Salerno- Reggio Calabria e alla Catania-Palermo-Messina, senza considerare i problemi enormi delle infrastrutture stradali.
Preoccupa soprattutto il ritardo del nostro Paese rispetto agli altri partner europei (Francia, Germania, Spagna) che hanno già presentato proposte di Piano, mentre noi siamo ancora a una bozza che ha suscitato un vespaio di polemiche anche dentro la maggioranza.
Digitalizzazione, transizione ecologica della mobilità sostenibile, dell’istruzione e ricerca della coesione di genere, sociale e territoriale, della tutela della salute, se non vogliono essere concetti astratti debbono tradursi in atti che vedono il Mezzogiorno protagonista su ciascuno di questi ambiti.
Ciò significa che, oltre a investire nelle infrastrutture del Sud, occorrono grandi investimenti nella Sanità per bloccare l’esodo ospedaliero che dal Meridione si sposta annualmente verso gli ospedali del Centro-Nord; nell’istruzione che soffre il fatto che la quota di giovani tra i 20 e i 24 anni in possesso di almeno un diploma di scuola media superiore è di circa dieci punti percentuali inferiore del Centro-Nord.
Solo se si opererà nelle direzioni anzidette si potranno gettare le basi per la nascita di quel secondo motore produttivo del Meridione e impedire il declino del Paese. Ecco perché bisogna privilegiare gli investimenti rispetto a incentivi, sussidi e mance. Infatti solo grandi investimenti pubblici e privati potranno compensare le perdite dell’occupazione, creare nuove opportunità per il sistema delle imprese e lavoro.
Di fronte all’esigenza di uscire il prima possibile da una pandemia senza precedenti e di varare al più presto un Piano Straordinario di investimenti per oltre 200 miliardi di euro, con il quale ricostruire il Paese, sanare le ferite del Sud e dare un futuro ai giovani, non abbiamo bisogno di una crisi di governo al buio, bensì di stabilità e coesione.
Quindi piuttosto che dividersi si agisca di comune accordo per recuperare il tempo perduto e ci si concentri per approvare – contestualmente – il progetto per utilizzare al meglio i fondi europei e procedure straordinarie per accelerare la spesa. Un Piano, ovviamente, che va condiviso con tutto il Paese, coinvolgendo Regioni e Comuni e chiamando al confronto e alla collaborazione il mondo del lavoro, dell’impresa e dei saperi. Solo così dimostreremo di essere un Paese con una classe dirigente seria che “non guarda alle prossime elezioni, ma al futuro delle nuove generazioni “.
Salvatore Bonura