Introdotto con la Legge di Bilancio 2024, a valere sul triennio 2024-2026, il Bonus Mamma è stato pensato per le madri lavoratrici dipendenti, sia nel settore privato sia pubblico, indipendentemente dall’ISEE, ed il cui figlio o figlia più piccola abbia un’età inferiore a 18 anni (era 10 anni nel 2024). L’ iniziativa prevede un’esenzione contributiva per le madri con tre figli (due per il 2024) con contratto a tempo indeterminato, escludendo però le lavoratrici domestiche.
Il valore del bonus equivale all’esonero dal versamento della contribuzione previdenziale per la quota in carico alla dipendente (pari al 9,19%), fino a un massimo di 3.000 euro annui. Questo esonero è calcolato mensilmente, applicandosi dal mese di nascita del terzo figlio o figlia fino al compimento del decimo anno del più piccolo. Negli anni 2025 e 2026, il bonus è riservato alle mamme con almeno tre figli o figlie ed è valido dalla nascita del terzo figlio o figlia e fino al diciottesimo anno del più piccolo o della più piccola. Il periodo di validità del bonus è sino al 31 dicembre 2026, senza scadenza per la presentazione della domanda. Attualmente, le richieste devono essere fatte tramite il datore di lavoro (a cui va quindi richiesto un modulo da compilare), ma è previsto in futuro la possibilità di farlo online sul portale dell’INPS. Non occorre presentare l’ISEE, non essendo criterio di assegnazione del bonus.
La misura è meritoria, ma, pur senza voler scadere in pratiche benaltriste, non si vuole rinunciare a rilevare alcuni elementi di criticità presenti nella misura. Innanzitutto, non è chiaro, se non per ragioni contabilistiche, perché questa misura non si estenda ad esempio alle donne lavoratrici con partite IVA. Si potrebbe dire: chi beneficia del regime forfettario paga solo tra il 5% e il 15% di IRPEF (per gli ordinari va molto peggio, come per i dipendenti, dal 23% al 43%). È vero, ma la tassazione finale, considerata la parte contributiva (che pure ha più variabili), si aggira intorno al 31% – 41% (soprassediamo sugli ordinari). Perché questa continua differenziazione tra le categorie contrattuali lavorative? Perché poi non vincolare all’ISEE questa misura? Ciò la renderebbe socialmente più equa e probabilmente consentirebbe di allargare la platea alle partite IVA o, almeno, di lasciare la misura valida per le madri con due figli, anziché con tre come previsto per il prossimo biennio.
Del resto, quanto è ampia la platea a cui si rivolge la manovra? Basti pensare che in Italia solo una famiglia (mono o bigenitoriale) su dieci ha tre figli.
Non sfugge che l’obiettivo del Governo è quello dell’aumento della natalità. Chissà, sarà interessante, numeri alla mano, fare un’analisi sul punto alla conclusione del triennio 2024-2026. Le opinioni in materia di bonus come volano della natalità sono ampie e contrastanti.
Spero possa scusarsi la domanda impopolare, ma perché aumentare la natalità? Il tema è ampio e controverso, ma qui non ci si vuole sottrarre a qualche riflessione, passibile ovviamente di ogni critica. Se si ragiona in termini demografici come si ragiona in termini economici, quindi con un approccio globale, il saldo demografico mondiale è positivo, passando da una popolazione di 6 miliardi nel 2000 agli attuali 8 miliardi circa. In Italia, secondo il report ISTAT del marzo 2024 (https://www.istat.it/it/files/2024/03/Indicatori_demografici.pdf) la popolazione è quasi stabile (dal 2014 al 2021 -2,8 per mille in media annua) grazie all’immigrazione dall’estero, alla diminuzione dell’emigrazione verso l’Estero e certamente, va detto, all’innalzamento dell’invecchiamento della popolazione.
Andrebbe forse guardato anche al numero dei contribuenti per ampliare l’analisi e la consapevolezza sulla cosiddetta tenuta dei conti pubblici, a cui spesso si lega la richiesta di aumento della natalità (bisognerebbe ricordarsi che un neonato sarà ottimisticamente contribuente in una ventina d’anni). Ecco, secondo la Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità (CIDA), resta sostanzialmente invariata la quota di contribuenti che effettivamente sostiene il Paese con tasse e contributi (dichiarazione dei redditi 2023), è semmai troppo alta la quota di cittadini totalmente o parzialmente a carico della collettività: il 45,16% degli italiani non ha redditi.
Non sarebbe forse più strutturale investire su politiche di immigrazione efficienti, su politiche attive del lavoro e sulla riduzione sostanziale del carico fiscale (il famigerato “cuneo fiscale”) nella quota dipendente e datore di lavoro, facendo recuperare competitività industriale e potere di spesa una volta per tutte?
Giuseppe Emiliano Bonura