Sono recentemente giunti alle cronache musicali Lucio Corsi e Giulia Mei. Il primo lanciato da Sanremo, la seconda da X-factor. Ovviamente l’artista siciliana e il toscano non sono nati oggi.
Giulia Mei è stata finalista alle Targhe Tenco 2019 nella categoria “Miglior album esordiente” con il suo primo disco “Diventeremo Adulti”, collezionando il Premio Alberto Cesa, il Premio Lauzi, il Premio del pubblico a Musicultura e arrivando alla finale al Premio De André. Il primo album “Diventeremo adulti” è del 2019.
Lucio Corsi ha pubblicato il suo primo EP contenente cinque tracce dal titolo “Vetulonia Dakar” già nel 2014, il primo album è “Altalena Boy/Vetulonia Dakar” del 2015, raggiungerà poi un pubblico più ampio con l’album “Bestiario musicale” del 2017.
Grazie poi a quei fenomeni di massa, che forse potrebbero dirsi nazional-popolari, cioè Sanremo e X-factor, Mei e Corsi sono diventati, o lo stanno diventando, main stream. Ma non è questo il punto.
Siamo stati abituati da decenni di stereotipia televisiva a ragionare per ghetti culturali. Chi non associa al siciliano (palermitano poi!) un film o una serie sulla mafia; chi al toscano la guasconeria impertinente, pungente e sempre illesa (Benigni ha il merito di aver fatto evolvere sino a sovvertire questo cliché).
Il merito di Mei e Corsi sta in questo: essere scappati dai recinti culturali in cui erano destinati a collocarsi. Si badi, non è un’accusa verso Milano, che in entrambi i casi ha avuto un ruolo importante se non addirittura determinante per la costruzione della loro carriera, quanto al milanocentrismo linguistico e culturale.
Dagli anni ‘90 in poi si è da qualche parte stabilito che l’eloquio fosse milanese, rubandolo dai Toscani che, va detto per quello sciovinismo dei Siciliani di pelle dura (qui si fa il verso, non a caso, all’emiliano Bassani scopritore di Tomasi di Lampedusa), l’avevano preso proprio dai Siciliani. Da lì si è proceduto per ghetti culturali, ma quel che è certo è che per fare un discorso serio oggi le vocali vadano indubbiamente tutte chiuse, assolutamente e contro ogni regola linguistica del cosiddetto italiano standard! E così non passa giorno che non si assista a quella cosa, non si sa se più ridicola o più umiliante, dei siciliani che dissimulano il proprio accento, tentano maldestramente di chiudere le “o” e le “e”, che procedono con esclamazioni milanesiggianti e con quell’odioso articolo determinativo sui nomi: il Marco, la Marica, la Marghe, il Filippo e compagnia cantante. Chiarisco: qui si dice Siciliani, ma si potrebbe dire Calabresi, Pugliesi, ecc., eccezion fatta solo, e con merito, degli abitanti dell’unico vero regno che ci sia mai stato in Italia, i napoletani, a cui va tutto il rispetto dello scrivente, capaci di restare, sino ad oggi, quasi impermeabili al consumismo livellante della Milano da bere.
E allora? Tutto questo per dire che ascoltare Corsi che musica con ferma voce toscana la sua narrazione, o Mei, che descrive, riscrive e mette in piedi nota su nota un mondo di dolore, speranza e contestazione con quelle stupende vocali sempre aperte, è da sola una liberazione, come fecero i cantautori genovesi negli anni ‘70 e ‘80, un urlo gioioso di emancipazione da quegli stereotipi che hanno da tempo distrutto le tante Italie che componevano il Paese meno Nazione che ci sia. Tutto questo poteva dirsi banalmente consigliando l’ascolto della “â picciridda mia”, di Giulia Mei, in cui l’utilizzo del siciliano è ancora di più gesto di liberazione.
L’ultimo che provò a contestare questo modello consumista e paternalista fu il friulano Pasolini; e dopo tutto, a pensarci bene, anche dei friulani si sono perse le tracce dalla cultura main stream. E molto, quasi un secolo fa, ebbe e non a torto a lagnarsene il poeta triestino Saba, che molto avrebbe voluto essere ricordato come il poeta italiano Umberto Saba, con questo sintetizzando il senso dell’uno in quello di un tutto, che in ultima analisi è poi il valore della diversità.
Giuseppe Emiliano Bonura